Diego Mazzola |
LETTERA
APERTA A MARCO PANNELLA
Caro
Marco,
ho
sentito il bisogno di scriverti perché credo necessaria una
precisazione. Sono molto interessato alla “questione giustizia”
nel suo complesso e mi dichiaro orgoglioso e fiero della tua azione
nonviolenta, che hai condotto e conduci con le tue solite e note
caparbietà ed esperienza e senso delle cose. A ben vedere, e per
quanto mi risulta, anche nelle carceri “qualcosa” è cambiato,
ovviamente grazie a te e al tipo di ingerenza nonviolenta che hai
saputo mettere in moto. I detenuti sono oggetto di molte più
attenzioni e di molte meno vessazioni, rispetto ad un non lontano
passato, da parte delle guardie carcerarie. Ed è anche vero che,
proprio nelle carceri italiane, si stanno sempre più diffondendo le
pratiche nonviolente.
Ti
scrivo oggi per il fatto che tu ti sei spesso lasciato andare ad
affermazioni della serie: “La
punizione deve esserci e deve anche essere dura”.
Anzi: voglio metterla nel modo seguente. TU DEVI CHIEDERE SCUSA PER QUELLE AFFERMAZIONI. Non ho altre occasioni per dirti queste cose, anche perché ho la netta impressione che in un congresso, anche in quelli come i nostri, le parole di gente come me siano poco ascoltate. Ne approfitto per ricordare, a te e a tutti noi, quanto sia necessaria un po’ più di attenzione verso le voci meno ascoltate, ma che pure tengono in piedi il partito. Quando ho cercato di dirti qualcosa (eravamo in congresso a Roma) mi hai detto che “c’è la legge”. Anche prima del divorzio c’era la legge, che prevedeva il carcere per chi era considerato sposo infedele. Perché allora non parlare di de-legalizzazione del Sistema Penale?
Anzi: voglio metterla nel modo seguente. TU DEVI CHIEDERE SCUSA PER QUELLE AFFERMAZIONI. Non ho altre occasioni per dirti queste cose, anche perché ho la netta impressione che in un congresso, anche in quelli come i nostri, le parole di gente come me siano poco ascoltate. Ne approfitto per ricordare, a te e a tutti noi, quanto sia necessaria un po’ più di attenzione verso le voci meno ascoltate, ma che pure tengono in piedi il partito. Quando ho cercato di dirti qualcosa (eravamo in congresso a Roma) mi hai detto che “c’è la legge”. Anche prima del divorzio c’era la legge, che prevedeva il carcere per chi era considerato sposo infedele. Perché allora non parlare di de-legalizzazione del Sistema Penale?
La
questione che intendo analizzare non è dunque, se non in modo
relativo, quella del
sovraffollamento,
bensì quello della liceità, della razionalità e della legalità
stessa del sistema carceri. Sto solo ricordando che in Italia sono
“colpiti” solo il 4/5% dei reati di fatto e che i reati che nel
nostro Paese non
vengono
perseguiti
sono
il 95/96% (proprio un bel risultato) e non
vengono portati avanti ad un tribunale. Sulla base di statistiche
prodotte dal Ministero della Giustizia il 68% circa di ex-detenuti,
che hanno scontato integralmente la loro pena, commette reati dopo la
liberazione.
Si
tratta di dati spesso ignorati e che parlano del fallimento
del carcere e del Sistema Penale nel suo complesso,
pur essendo sotto gli occhi di tutti. La recidiva di ex-detenuti che
hanno usufruito di pene alternative (nell’ambito di un progetto
rieducativo minimamente articolato) è di circa il 20% sulla base di
campioni attendibili. Figuriamoci poi se queste persone potessero
avere una “borsa lavoro” con cui ricominciare a sperare. Da pochi
giorni ho saputo di quei 130 detenuti che hanno usufruito di una
borsa
lavoro,
per cui sono stati avviati al lavoro per il quale sono stati
preparati. Non uno di loro è tornato a reiterare reati. E allora
perché non si sono dati altri fondi ad altri detenuti (sai che
spesa)? Ricordo che una legge del 2000 prevede l’abbattimento di
80% dei contributi sociali per ditte che assumono detenuti. Si tratta
di insistere in quella direzione. Nel caso della Lombardia molto
utile si è dimostrato il contributo del “Provveditorato regionale”
(della Amministrazione Penitenziaria) che funge da “ufficio di
collocamento” per i detenuti e per la loro qualificazione, ma molto
ancora può essere fatto. Ecco allora che quel fallimento si dimostra
ancora in modo più grave rispetto a quanto previsto dalla
Costituzione all’art. 27 (le pene non possono consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato).
In
tema di errori giudiziari mi è sufficiente l’indagine di Giorgio
Inzani
(ex
consigliere in Regione Lombardia) secondo la quale “In
Italia nel 1997 (ma da allora mi sembra non siano più usciti
aggiornamenti: perché?) sono stati pubblicati dal Ministero di
Grazia e Giustizia i dati di un vero e proprio “genocidio”… Dal
1947 al 1996 sono stati mandati in galera (per un minimo di 6 mesi
fino ad un massimo di 9 anni) ben 4 milioni di Cittadini che “non
avevano commesso i reati “ascrittigli”. Con un trend in
spaventosa crescita per cui, se nel 1982 transitavano nelle carceri
italiane 43 mila cittadini incolpevoli, nel triennio 1994-1996 si
arrivava alla stupefacente cifra di 120 mila cittadini/anno”.
È
parere degli esperti che il sistema
carceri nel suo complesso non sia riformabile
e, quello che è peggio, sta nel fatto che insistere
con la giustizia
punitiva
non aumenterebbe di molto quel 4/5% di fatti perseguiti e
perseguibili, ma farebbe aumentare ancora quel 5 milioni e più di
reclusi da innocenti accertati (perché a questo ammonta il numero di
quelle persone dal 1945 ad oggi, che è in continua crescita), ed
aumenterebbe anche il numero di carcerazioni preventive e
l’infelicità e la disperazione di tante famiglie. Occorre altro.
Anche perché oggi sono circa 500 i processi che cadono in
prescrizione ogni giorno lavorativo.
E’
evidentemente necessario superare il sistema penale perché
inadeguato al compito che gli si attribuisce.
Al contrario è doveroso e possibile riformare la giustizia, avendo
l’obiettivo
di non punire,
di non procurare sofferenza sugli autori di reati, perché contraria
alla presa di coscienza. Come si può vedere il carcere, per le
ragioni viste, non ha (e oggi sappiamo che non ha mai avuto) la
funzione sociale principale che gli si attribuisce: quella di
deterrente
e rieducatore
nei confronti di chi delinque, prima ancora che di una forma di
espiazione
di
una condanna giudiziaria. Ma la mancata giustizia crea nuovi reati.
So
che tu conosci tutte queste cose, ma te le dico per farti comprendere
la mia angoscia, che è relativa al crimine più vergognoso “in sé
e di per sé”, che consiste nella voglia di punire, perché il
carcere è altro dal “luogo” nel quale ci si “redime o ci si
può redimere” grazie “al senso di colpa” (specialmente se
conseguito sotto coercizione).
Relativamente al fatto che il 95% dei reclusi deve la sua condizione
proprio alla mancanza di in lavoro, BISOGNA RICONOSCERE CHE LI
FACCIAMO “COLPEVOLI” DELLA PROPRIA POVERTÀ E CHE, COMUNQUE, LO
STATO SI FA UN BEATO BAFFO DI QUANTO PREVISTO IN MATERIA DI DIRITTO
AL LAVORO.
La
“presa di coscienza”, che si crede possibile anche nella
indigenza più nera, non la si deve affatto alla condizione
carceraria, bensì agli incontri con operatori che vengono
dall’esterno
del carcere
e la si deve a cappellani carcerari, psicologi, educatori e,
soprattutto, volontari, che spesso riescono a procurare casa e
lavoro. E allora perché ancora carcerare esseri umani? Perfino i
serial
killer
e i pedofili
e i violenti
relazionali
non sono colpevoli della propria malattia: quindi non ha senso
neppure un processo. Pensa che ancora oggi un pedofilo, sorpreso
nella sua orrenda vocazione, viene sottoposto a processo, perché lo
si pensa “colpevole”, quando la sua è una malattia, di elevata
pericolosità, ma pur sempre malattia. E finisce in carcere con
l’accusa di sequestro di persona o di violenza carnale, pur di
“punirli” della loro malattia. In Italia ce ne sono circa 12.000,
attentamente curati e tenuti sotto osservazione dalle ASL locali.
Non
si processano i “malati” (che devono essere curati) e non si
straccia
la logica
nell’inseguirne i motivi o il senso della loro intenzionalità
o della preterintenzionalità.
I convegni dei cosiddetti esperti assomigliano molto allo sguardo dei
guardoni
nelle coscienze altrui. Del resto non esiste neppure la categoria dei
“cattivi” (in tal caso sarebbero interessati a conoscerne i
connotati anche le scienze biologiche e sociali).
La
dottoressa Silvia Cecchi, giudice in Pesaro, afferma anche: “E
tuttavia ci si deve guardare dal semplicismo del corollario che può
trarsi da un’affermazione come questa, della libertà del male, in
cui si compendia poi il ragionamento del Grande Inquisitore di
Dostoevskij: se
il male è radicato nella libertà, allora per abolire il male
occorre abolire la libertà
(situazione
dalla quale non siamo affatto lontani oggi). L’errore
di una “redenzione senza libertà” è alla base di alcuni
totalitarismi del Novecento, di cui Dostoevskij fu lucidi profeta. Se
quanto detto è vero, un errore è allora alla base della concezione
giustizialistica e autoritaria del diritto penale, così come della
mentalità più rigorista e “forcaiola” della opinione popolare.
Un errore
ulteriore è alla base del fondamento retribuzionistico della pena,
quello
di non capire che, abolendo la libertà, si abolisce in radice la
stessa possibilità del bene, e si lascia dilagare il male senza
argini e alternative. Il
Novecento ha dimostrato a sufficienza quali terribili dimensioni
possa assumere il male nel quale il bene imposto si rovescia, come
annota ancora l’Autore più sopra citato. In questa prospettiva la
libertà appare così tanto necessaria al male quanto al bene. E
infine, come sostiene Martin Buber “l’uomo è l’essere capace
di rendersi colpevole” …In nessun caso comunque l’esecuzione
della pena dovrà interrompere le relazioni personali del condannato,
specie con la sua famiglia”. Uso
le sue parole, perché lei è autorizzata a dire.
C’è
poi un altro aspetto del problema che non viene considerato. L’azione
che la legge prevede di esercitare nei confronti di chi compie il
“reato” deve essere in qualche modo “compresa” da
quest’ultimo, ma ciò non accade e non può accadere in una
condizione di “mala giustizia”, come quella in cui viviamo. Mi
servo ancora delle note della dottoressa Silvia Cecchi:
“L’esperienza
stessa, per quanto mi riguarda, mi induce ad affermare con cognizione
di causa, che la maggior parte delle lamentate
carenze di rigore nell’applicazione delle norme giuridiche e
nell’accertamento delle responsabilità discende proprio dalla
incommensurabilità tra natura del fatto, personalità del reo e
natura della sanzione, sì che i danni del fenomeno della cosiddetta
“fuga dalla sanzione” trovano la loro spiegazione più plausibile
proprio in questa cattiva coscienza, dalla quale si può soltanto
fuggire.
D’altronde non vi è dubbio che proprio la “fuga
dalla sanzione”,
oggi così imponente, sia da ogni parte additata a sua volta come una
delle principali cause (prima effetto e poi causa) del
collasso del sistema penale.
…L’esperienza ci ha insegnato come la prospettiva del carcere
costituisca spesso un ostacolo sia alla denuncia e alla libera
narrazione del fatto
da parte delle vittime e testimoni, sia alla stessa libera
valutazione del fatto da parte del Giudice…”.
E a proposito dell’interrogatorio
la stessa Silvia Cecchi dice: “L’interrogatorio,
dal quale in cuor nostro ci aspettiamo sempre una sorta di riscatto
della dignità umana del detenuto, è quasi sempre deludente,
restituendoci una persona che per la condizione in cui si trova non
può serbare più buone sorprese per nessuno: impossibile evocarne la
volontà di presentarci altro di sé, impossibile confidare in un
“dialogo”; la sua condotta verbale e comportamentale sarà per lo
più automatica, stereotipa, rinunciataria, abulica, trincerata
dietro un contegno strettamente orientato ad una strategia difensiva
suggeritagli dal difensore, senza che si lascino cogliere vere
differenze tra l’atteggiamento di un omicida, di un abusante, di
un rapinatore seriale, di uno spacciatore. Le medesime riflessioni
spiegano, sotto altro profilo, l’ipertrofia
oggi assunta dal garantismo,
ben aldilà delle sue ragioni fondatrici, per finalità meramente
ostruzionistiche, dilatorie, disfattrici dell’intero ordito
processuale: né può essere diversamente, se l’imputato combatte
inevitabilmente per salvarsi da una pena sentita come “ingiusta”,
incongrua, irragionevole, quanto inutile e meramente afflittiva,
mosso com’è dall’horror
poenae,
e se il giudice non può che seguire passivamente la continua
violazione del fair play accertando e dichiarando cause di nullità
(di atti o fasi processuali) e prescrizioni del reato”.
Ed
una delle conclusioni a cui perviene la dottoressa Cecchi così
recita: “Dirsi
favorevoli
ad una pena non afflittiva,
significa allora già dirsi contrari
alla pena carceraria.
Non occorre smantellare definitivamente e anche di fronte ai crimini
più efferati, l’idea che una struttura idonea (opportunamente
attrezzata e predisposta a tal fine, nonché munita dei presidii
terapeutici appropriati)
alla
ricostruzione della dimensione etica e civile della persona, delle
sue relazioni sociali e affettive, possa essere tuttavia
indispensabile al “trattamento” della personalità criminale,
per accettare l’idea che il carcere quale esso è nella realtà,
debba essere comunque smantellato.
Ti
ricordo anche che Gherardo Colombo ha dato il suo assenso al progetto
di Amnistia per la Repubblica, ma si è detto allo stesso tempo del
tutto favorevole all’abolizione
del sistema penale, e lo ha scritto. SUPERARE IL SISTEMA PENALE, È
UN DOVERE POLITICO, proprio nell’ipotesi di una riforma della
giustizia, anche perché si parla di nonviolenza
come evento culturale all’altezza di un modo nuovo di fare
giustizia e porta davvero ad indicare l’abolizionismo
come metodo,
a partire da quanto ricordò l’avv. Franca Angiolillo al convegno
che l’Associazione Radicale Enzo Tortora tenne sul tema e condusse
alla pubblicazione degli atti nel 1995 a Milano, proprio per farne
comprendere la percorribilità. “Il
carcere è un fallimento, cioè uno zoo umano. I benefici della legge
Gozzini non vengono più concessi. Le parole del prof. Hulsman mi
hanno suscitato un ricordo personale. Ha
detto che i giudici abolizionisti fanno a meno del sistema penale o
fanno meno sentenze.
Mio padre è stato magistrato per 42 anni e nel ’45, nell’immediato
dopoguerra, presiedeva la corte d’Assise straordinaria di
Alessandria, dove i clienti erano i “repubblichini”, allora si
chiamavano così, e veniva comminata la pena di morte. Egli non
voleva ricorrere alla pena di morte, però era costretto a farlo
perché i giurati popolari volevano solo quella. Allora egli faceva
le sentenze “suicide”, che sicuramente sarebbero state annullate
in Cassazione. Quindi mio padre, pur senza sapere di essere
abolizionista, nel ruolo che ricopriva faceva quello che ha detto il
professore”.
Ed ecco che oggi, finalmente, sempre nella logica dell’abolizionismo
come metodo,
quale criterio
perseguibile di iniziativa politica,
qualche “eretico” (dio lo benedica) comincia a parlare della
possibilità di interrompere
la custodia cautelare e di usarla sempre meno o di non usarla
affatto.
È
per me un dovere sottolineare che NON
PUÒ
ESSERCI
CONTRASTO TRA L’IPOTESI DI SUPERAMENTO DEL SISTEMA PENALE E LA
NOSTRA, LA TUA INIZIATIVA POLITICA.
L’ipotesi che ho abbracciato in previsione di una riforma della
giustizia è quella del passaggio dal modello retributivo
a quello riabilitativo-riparativo,
senz’altro
più coerente con il dettato costituzionale e con le nostre
aspettative per introdurre elementi di nonviolenza
nell’amministrazione della giustizia e nei rapporti tra i cittadini
e la polis.
Dimmi
perché non dovresti essere d’accordo. Guarda che mi aspetto una
risposta.
Con
stima e affetto,
Diego
Mazzola
Associazione
Radicali Senza Fissa Dimora
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