UNA FIRMA PER CAMBIARE (FINALMENTE) LA GIUSTIZIA
Vittorio Feltri
(L'articolo originale è apparso sabato 8 giugno 2013 su IlGiornale.it)
Qui si tratta di raccogliere 500mila firme, il minimo indispensabile per indire un referendum. Nel caso specifico, mirante a riformare la giustizia. Non una rivoluzione. Alcuni ritocchi alla legge, visto che riscriverla di sana pianta, come sarebbe opportuno, non è alla portata del Parlamento, diviso in partiti inclini ad azzuffarsi, perennemente in disaccordo su tutto, figuriamoci sulla delicata materia di cui ragioniamo.
Mi corre l'obbligo di precisare che personalmente ho aderito all'iniziativa dei radicali, i soli che in questo Paese, piaccia o non piaccia, siano stati in grado di combinare qualcosa di concreto in politica. Le altre forze, pur manifestando in alcune circostanze buona volontà, non sono mai riuscite a trovare un'intesa per rinnovare la legislazione. Non mi nascondo quindi dietro a un dito: sto con Marco Pannella e mi auguro che anche stavolta egli piazzi un colpo decisivo per costringere l'Italia a darsi una mossa. Invito i lettori a non perdere questa occasione se vogliono contribuire a rendere civili le nostre istituzioni: basta che si rechino a firmare. Sarà poi il popolo a decidere al seggio ciò che preferisce: mantenere lo statu quo oppure svoltare e scrollarsi di dosso il vecchiume che impedisce alla macchina della giustizia di funzionare meglio.
Entriamo nello specifico e tentiamo di spiegare. I punti sono 6. I primi due riguardano la responsabilità civile dei magistrati, i quali oggi, di fatto, non pagano per i propri errori, neppure i più gravi. Qui si pretende di agevolare i cittadini nell'esercizio dell'azione risarcitoria qualora siano stati danneggiati da un'interpretazione errata delle norme di diritto o dalla valutazione delle prove. Insomma, lo spirito del referendum non è quello di vendetta nei confronti delle toghe che sbagliano: capita, e spesso, anche a loro di andare fuori pista. Semplicemente, responsabilizzando chi amministra la giustizia anche a livello economico (se i giudici rischiano in solido diventano più prudenti e quindi più attenti), si tende a ottenere sentenze eque o almeno equilibrate.
D'altronde il problema è noto: tutti i lavoratori pagano per le loro topiche tranne i giudici. Per i quali, male che vada, paga lo Stato. Un incentivo alla faciloneria. Perfino i medici, nelle cui mani affidiamo la salute (la vita), se mettono il piede su una buccia di banana non sfuggono al rigore della legge: sono obbligati a sborsare fior di quattrini. Molti di essi si sono ridotti, onde evitare di finire in bolletta o, peggio, di indebitarsi, a sottoscrivere polizze assicurative dal premio salato. Ora non si comprende per quale motivo i camici bianchi rispondano delle loro cantonate, mentre le toghe abbiano licenza di toppare, lasciando le vittime in brache di tela. Assurdo.
Se tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, non vi è ragione di considerare i giudici una categoria speciale da proteggere. Ci rendiamo conto: la professione del magistrato ha delle caratteristiche tali da renderla unica, ma non vi è alcun motivo per esentarla da castighi qualora chi la svolga si sia comportato male. Tutti qui. Pagano i tranvieri maldestri, ovvio che paghino pure coloro che, steccando, mandano in galera un povero innocente.
Veniamo al punto 3. Col plebiscito in questione si aspira altresì a separare le carriere dei magistrati: il giudice giudicante è terzo per definizione, di conseguenza il Pm (ossia la pubblica accusa) non può essere un suo collega; venga piuttosto parificato al difensore, in maniera che accusa e difesa si scontrino ad armi pari e che il giudice sia al di sopra delle parti. Che c'è di strano in questa divisione di compiti? Nulla. Il desiderio è quello di offrire maggiori garanzie agli imputati, che non sono carne da macello bensì uomini e donne meritevoli di rispetto.
Quarto punto. La giustizia finora ha abusato della carcerazione preventiva, serve una regolamentazione più rigida. Non si sbatta in prigione chi non sia ancora stato condannato definitivamente. Salvo rare eccezioni. Ma che siano eccezioni, e non la norma come accade ora con la minaccia del carcere utilizzata per spaventare e indurre a confessare, a mo' di tortura, chi è nelle grane giudiziarie.
Quinto punto. L'ergastolo contrasta con l'articolo 27 della Costituzione, secondo il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Bisogna abolirlo oppure si deve cambiare la Carta. Siamo favorevoli alla prima opzione. Occhio anche alle pene accessorie. Infliggere a un condannato l'isolamento per tre anni è una crudeltà indegna di una democrazia decente. Infine. Una nuova disciplina per i magistrati fuori ruolo. Abbiano un lavoro utile, chiaro, preferibilmente soggetto a restrizioni.
Chiediamo troppo? No. Semmai lo chiediamo troppo tardi. Quindi spicciamoci a ottenerlo.
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