sabato 19 maggio 2012

Superare il sistema penale


Diego Mazzola

LETTERA APERTA A MARCO PANNELLA
Caro Marco,
ho sentito il bisogno di scriverti perché credo necessaria una precisazione. Sono molto interessato alla “questione giustizia” nel suo complesso e mi dichiaro orgoglioso e fiero della tua azione nonviolenta, che hai condotto e conduci con le tue solite e note caparbietà ed esperienza e senso delle cose. A ben vedere, e per quanto mi risulta, anche nelle carceri “qualcosa” è cambiato, ovviamente grazie a te e al tipo di ingerenza nonviolenta che hai saputo mettere in moto. I detenuti sono oggetto di molte più attenzioni e di molte meno vessazioni, rispetto ad un non lontano passato, da parte delle guardie carcerarie. Ed è anche vero che, proprio nelle carceri italiane, si stanno sempre più diffondendo le pratiche nonviolente.
Ti scrivo oggi per il fatto che tu ti sei spesso lasciato andare ad affermazioni della serie: “La punizione deve esserci e deve anche essere dura”.

Anzi: voglio metterla nel modo seguente. TU DEVI CHIEDERE SCUSA PER QUELLE AFFERMAZIONI. Non ho altre occasioni per dirti queste cose, anche perché ho la netta impressione che in un congresso, anche in quelli come i nostri, le parole di gente come me siano poco ascoltate. Ne approfitto per ricordare, a te e a tutti noi, quanto sia necessaria un po’ più di attenzione verso le voci meno ascoltate, ma che pure tengono in piedi il partito. Quando ho cercato di dirti qualcosa (eravamo in congresso a Roma) mi hai detto che “c’è la legge”. Anche prima del divorzio c’era la legge, che prevedeva il carcere per chi era considerato sposo infedele. Perché allora non parlare di de-legalizzazione del Sistema Penale?
La questione che intendo analizzare non è dunque, se non in modo relativo, quella del sovraffollamento, bensì quello della liceità, della razionalità e della legalità stessa del sistema carceri. Sto solo ricordando che in Italia sono “colpiti” solo il 4/5% dei reati di fatto e che i reati che nel nostro Paese non vengono perseguiti sono il 95/96% (proprio un bel risultato) e non vengono portati avanti ad un tribunale. Sulla base di statistiche prodotte dal Ministero della Giustizia il 68% circa di ex-detenuti, che hanno scontato integralmente la loro pena, commette reati dopo la liberazione.
Si tratta di dati spesso ignorati e che parlano del fallimento del carcere e del Sistema Penale nel suo complesso, pur essendo sotto gli occhi di tutti. La recidiva di ex-detenuti che hanno usufruito di pene alternative (nell’ambito di un progetto rieducativo minimamente articolato) è di circa il 20% sulla base di campioni attendibili. Figuriamoci poi se queste persone potessero avere una “borsa lavoro” con cui ricominciare a sperare. Da pochi giorni ho saputo di quei 130 detenuti che hanno usufruito di una borsa lavoro, per cui sono stati avviati al lavoro per il quale sono stati preparati. Non uno di loro è tornato a reiterare reati. E allora perché non si sono dati altri fondi ad altri detenuti (sai che spesa)? Ricordo che una legge del 2000 prevede l’abbattimento di 80% dei contributi sociali per ditte che assumono detenuti. Si tratta di insistere in quella direzione. Nel caso della Lombardia molto utile si è dimostrato il contributo del “Provveditorato regionale” (della Amministrazione Penitenziaria) che funge da “ufficio di collocamento” per i detenuti e per la loro qualificazione, ma molto ancora può essere fatto. Ecco allora che quel fallimento si dimostra ancora in modo più grave rispetto a quanto previsto dalla Costituzione all’art. 27 (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato).
In tema di errori giudiziari mi è sufficiente l’indagine di Giorgio Inzani (ex consigliere in Regione Lombardia) secondo la quale “In Italia nel 1997 (ma da allora mi sembra non siano più usciti aggiornamenti: perché?) sono stati pubblicati dal Ministero di Grazia e Giustizia i dati di un vero e proprio “genocidio”… Dal 1947 al 1996 sono stati mandati in galera (per un minimo di 6 mesi fino ad un massimo di 9 anni) ben 4 milioni di Cittadini che “non avevano commesso i reati “ascrittigli”. Con un trend in spaventosa crescita per cui, se nel 1982 transitavano nelle carceri italiane 43 mila cittadini incolpevoli, nel triennio 1994-1996 si arrivava alla stupefacente cifra di 120 mila cittadini/anno”.
È parere degli esperti che il sistema carceri nel suo complesso non sia riformabile e, quello che è peggio, sta nel fatto che insistere con la giustizia punitiva non aumenterebbe di molto quel 4/5% di fatti perseguiti e perseguibili, ma farebbe aumentare ancora quel 5 milioni e più di reclusi da innocenti accertati (perché a questo ammonta il numero di quelle persone dal 1945 ad oggi, che è in continua crescita), ed aumenterebbe anche il numero di carcerazioni preventive e l’infelicità e la disperazione di tante famiglie. Occorre altro. Anche perché oggi sono circa 500 i processi che cadono in prescrizione ogni giorno lavorativo.
E’ evidentemente necessario superare il sistema penale perché inadeguato al compito che gli si attribuisce. Al contrario è doveroso e possibile riformare la giustizia, avendo l’obiettivo di non punire, di non procurare sofferenza sugli autori di reati, perché contraria alla presa di coscienza. Come si può vedere il carcere, per le ragioni viste, non ha (e oggi sappiamo che non ha mai avuto) la funzione sociale principale che gli si attribuisce: quella di deterrente e rieducatore nei confronti di chi delinque, prima ancora che di una forma di espiazione di una condanna giudiziaria. Ma la mancata giustizia crea nuovi reati.
So che tu conosci tutte queste cose, ma te le dico per farti comprendere la mia angoscia, che è relativa al crimine più vergognoso “in sé e di per sé”, che consiste nella voglia di punire, perché il carcere è altro dal “luogo” nel quale ci si “redime o ci si può redimere” grazie “al senso di colpa” (specialmente se conseguito sotto coercizione). Relativamente al fatto che il 95% dei reclusi deve la sua condizione proprio alla mancanza di in lavoro, BISOGNA RICONOSCERE CHE LI FACCIAMO “COLPEVOLI” DELLA PROPRIA POVERTÀ E CHE, COMUNQUE, LO STATO SI FA UN BEATO BAFFO DI QUANTO PREVISTO IN MATERIA DI DIRITTO AL LAVORO.
La “presa di coscienza”, che si crede possibile anche nella indigenza più nera, non la si deve affatto alla condizione carceraria, bensì agli incontri con operatori che vengono dall’esterno del carcere e la si deve a cappellani carcerari, psicologi, educatori e, soprattutto, volontari, che spesso riescono a procurare casa e lavoro. E allora perché ancora carcerare esseri umani? Perfino i serial killer e i pedofili e i violenti relazionali non sono colpevoli della propria malattia: quindi non ha senso neppure un processo. Pensa che ancora oggi un pedofilo, sorpreso nella sua orrenda vocazione, viene sottoposto a processo, perché lo si pensa “colpevole”, quando la sua è una malattia, di elevata pericolosità, ma pur sempre malattia. E finisce in carcere con l’accusa di sequestro di persona o di violenza carnale, pur di “punirli” della loro malattia. In Italia ce ne sono circa 12.000, attentamente curati e tenuti sotto osservazione dalle ASL locali.
Non si processano i “malati” (che devono essere curati) e non si straccia la logica nell’inseguirne i motivi o il senso della loro intenzionalità o della preterintenzionalità. I convegni dei cosiddetti esperti assomigliano molto allo sguardo dei guardoni nelle coscienze altrui. Del resto non esiste neppure la categoria dei “cattivi” (in tal caso sarebbero interessati a conoscerne i connotati anche le scienze biologiche e sociali).
La dottoressa Silvia Cecchi, giudice in Pesaro, afferma anche: “E tuttavia ci si deve guardare dal semplicismo del corollario che può trarsi da un’affermazione come questa, della libertà del male, in cui si compendia poi il ragionamento del Grande Inquisitore di Dostoevskij: se il male è radicato nella libertà, allora per abolire il male occorre abolire la libertà (situazione dalla quale non siamo affatto lontani oggi). L’errore di una “redenzione senza libertà” è alla base di alcuni totalitarismi del Novecento, di cui Dostoevskij fu lucidi profeta. Se quanto detto è vero, un errore è allora alla base della concezione giustizialistica e autoritaria del diritto penale, così come della mentalità più rigorista e “forcaiola” della opinione popolare. Un errore ulteriore è alla base del fondamento retribuzionistico della pena, quello di non capire che, abolendo la libertà, si abolisce in radice la stessa possibilità del bene, e si lascia dilagare il male senza argini e alternative. Il Novecento ha dimostrato a sufficienza quali terribili dimensioni possa assumere il male nel quale il bene imposto si rovescia, come annota ancora l’Autore più sopra citato. In questa prospettiva la libertà appare così tanto necessaria al male quanto al bene. E infine, come sostiene Martin Buber “l’uomo è l’essere capace di rendersi colpevole” …In nessun caso comunque l’esecuzione della pena dovrà interrompere le relazioni personali del condannato, specie con la sua famiglia”. Uso le sue parole, perché lei è autorizzata a dire.
C’è poi un altro aspetto del problema che non viene considerato. L’azione che la legge prevede di esercitare nei confronti di chi compie il “reato” deve essere in qualche modo “compresa” da quest’ultimo, ma ciò non accade e non può accadere in una condizione di “mala giustizia”, come quella in cui viviamo. Mi servo ancora delle note della dottoressa Silvia Cecchi: “L’esperienza stessa, per quanto mi riguarda, mi induce ad affermare con cognizione di causa, che la maggior parte delle lamentate carenze di rigore nell’applicazione delle norme giuridiche e nell’accertamento delle responsabilità discende proprio dalla incommensurabilità tra natura del fatto, personalità del reo e natura della sanzione, sì che i danni del fenomeno della cosiddetta “fuga dalla sanzione” trovano la loro spiegazione più plausibile proprio in questa cattiva coscienza, dalla quale si può soltanto fuggire. D’altronde non vi è dubbio che proprio la “fuga dalla sanzione”, oggi così imponente, sia da ogni parte additata a sua volta come una delle principali cause (prima effetto e poi causa) del collasso del sistema penale. …L’esperienza ci ha insegnato come la prospettiva del carcere costituisca spesso un ostacolo sia alla denuncia e alla libera narrazione del fatto da parte delle vittime e testimoni, sia alla stessa libera valutazione del fatto da parte del Giudice…”. E a proposito dell’interrogatorio la stessa Silvia Cecchi dice: “L’interrogatorio, dal quale in cuor nostro ci aspettiamo sempre una sorta di riscatto della dignità umana del detenuto, è quasi sempre deludente, restituendoci una persona che per la condizione in cui si trova non può serbare più buone sorprese per nessuno: impossibile evocarne la volontà di presentarci altro di sé, impossibile confidare in un “dialogo”; la sua condotta verbale e comportamentale sarà per lo più automatica, stereotipa, rinunciataria, abulica, trincerata dietro un contegno strettamente orientato ad una strategia difensiva suggeritagli dal difensore, senza che si lascino cogliere vere differenze tra l’atteggiamento di un omicida, di un abusante, di un rapinatore seriale, di uno spacciatore. Le medesime riflessioni spiegano, sotto altro profilo, l’ipertrofia oggi assunta dal garantismo, ben aldilà delle sue ragioni fondatrici, per finalità meramente ostruzionistiche, dilatorie, disfattrici dell’intero ordito processuale: né può essere diversamente, se l’imputato combatte inevitabilmente per salvarsi da una pena sentita come “ingiusta”, incongrua, irragionevole, quanto inutile e meramente afflittiva, mosso com’è dall’horror poenae, e se il giudice non può che seguire passivamente la continua violazione del fair play accertando e dichiarando cause di nullità (di atti o fasi processuali) e prescrizioni del reato”.
Ed una delle conclusioni a cui perviene la dottoressa Cecchi così recita: “Dirsi favorevoli ad una pena non afflittiva, significa allora già dirsi contrari alla pena carceraria. Non occorre smantellare definitivamente e anche di fronte ai crimini più efferati, l’idea che una struttura idonea (opportunamente attrezzata e predisposta a tal fine, nonché munita dei presidii terapeutici appropriati) alla ricostruzione della dimensione etica e civile della persona, delle sue relazioni sociali e affettive, possa essere tuttavia indispensabile al “trattamento” della personalità criminale, per accettare l’idea che il carcere quale esso è nella realtà, debba essere comunque smantellato.
Ti ricordo anche che Gherardo Colombo ha dato il suo assenso al progetto di Amnistia per la Repubblica, ma si è detto allo stesso tempo del tutto favorevole all’abolizione del sistema penale, e lo ha scritto. SUPERARE IL SISTEMA PENALE, È UN DOVERE POLITICO, proprio nell’ipotesi di una riforma della giustizia, anche perché si parla di nonviolenza come evento culturale all’altezza di un modo nuovo di fare giustizia e porta davvero ad indicare l’abolizionismo come metodo, a partire da quanto ricordò l’avv. Franca Angiolillo al convegno che l’Associazione Radicale Enzo Tortora tenne sul tema e condusse alla pubblicazione degli atti nel 1995 a Milano, proprio per farne comprendere la percorribilità. “Il carcere è un fallimento, cioè uno zoo umano. I benefici della legge Gozzini non vengono più concessi. Le parole del prof. Hulsman mi hanno suscitato un ricordo personale. Ha detto che i giudici abolizionisti fanno a meno del sistema penale o fanno meno sentenze. Mio padre è stato magistrato per 42 anni e nel ’45, nell’immediato dopoguerra, presiedeva la corte d’Assise straordinaria di Alessandria, dove i clienti erano i “repubblichini”, allora si chiamavano così, e veniva comminata la pena di morte. Egli non voleva ricorrere alla pena di morte, però era costretto a farlo perché i giurati popolari volevano solo quella. Allora egli faceva le sentenze “suicide”, che sicuramente sarebbero state annullate in Cassazione. Quindi mio padre, pur senza sapere di essere abolizionista, nel ruolo che ricopriva faceva quello che ha detto il professore”. Ed ecco che oggi, finalmente, sempre nella logica dell’abolizionismo come metodo, quale criterio perseguibile di iniziativa politica, qualche “eretico” (dio lo benedica) comincia a parlare della possibilità di interrompere la custodia cautelare e di usarla sempre meno o di non usarla affatto.
È per me un dovere sottolineare che NON PUÒ ESSERCI CONTRASTO TRA L’IPOTESI DI SUPERAMENTO DEL SISTEMA PENALE E LA NOSTRA, LA TUA INIZIATIVA POLITICA. L’ipotesi che ho abbracciato in previsione di una riforma della giustizia è quella del passaggio dal modello retributivo a quello riabilitativo-riparativo, senz’altro più coerente con il dettato costituzionale e con le nostre aspettative per introdurre elementi di nonviolenza nell’amministrazione della giustizia e nei rapporti tra i cittadini e la polis. Dimmi perché non dovresti essere d’accordo. Guarda che mi aspetto una risposta.
Con stima e affetto,
Diego Mazzola
Associazione Radicali Senza Fissa Dimora

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