Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino,
Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio,
brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e
del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si
rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto,
obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di
cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono
dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga,
nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia.
Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha
ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni
scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la
forza interiore di parlare Vittorio Marinelli, che con voce rotta
dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente
“assurda” di suo fratello Luigi.
Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al
100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto
controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di
ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente
fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la
sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di
amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e
i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse
tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011
Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in
escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha
mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel
corso della sua infelice esistenza.
Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi,
anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la
polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due
volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che
straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in
fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un
ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio
si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e
fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia
uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze,
con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non
bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo
sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un
ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo
ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a
desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!”
sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si
accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare.
Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o
tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più
ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle
manette.... non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da
dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di
servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli
faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel
panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano
infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di
Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano
davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti,
vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o
meglio: per fingere) la rianimazione.
Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di
omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di
avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il
magistrato di turno avalla la tesi della “collutazione”. L’autopsia
riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue
nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze
dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una
presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il
pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata
una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la
causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in
stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni
degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli
venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale,
mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un
quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto,
descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma
quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è
evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si
sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il
fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è
morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è
la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole
pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di
anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.